IL LIMITE DEL QUINTO SI APPLICA ANCHE ALLA CESSIONE DEL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO?

La risposta al quesito è contenuta nella sentenza della Corte di Cassazione n. 3913 del 17.02.2020. La fattispecie viene di seguito riassunta.

Al momento della cessazione del rapporto lavorativo, Caio, debitore di Tizio, ha in essere un prestito con una finanziaria, con cessione del quinto dello stipendio. Per effetto dell’interruzione del rapporto lavorativo, la società datrice di lavoro di Caio versa alla finanziaria l’intero importo dovuto al lavoratore a titolo di trattamento di fine rapporto.

Tizio instaura quindi procedimento di accertamento dell’obbligo del terzo nei confronti della società datrice di lavoro del debitore principale Caio. Il Tribunale prima e la Corte d’Appello dopo accertano che la società, terza pignorata, è debitrice nei confronti del dipendente di alcune somme, tra cui quelle a titolo di trattamento di fine rapporto.

La Corte d’Appello afferma, in particolare, che la tutela riservata agli emolumenti dei dipendenti pubblici è stata progressivamente estesa anche ai dipendenti privati, con conseguente incedibilità oltre il limite del quinto, anche con riferimento al trattamento di fine rapporto. Pertanto, la datrice di lavoro non avrebbe dovuto corrispondere alla finanziaria la somma eccedente il quinto del TFR maturato da Caio.

La società propone quindi ricorso per Cassazione avverso la sentenza di secondo grado, sostenendo, tra gli altri motivi, che la cedibilità del trattamento di fine rapporto non è soggetta al limite del quinto. Ciò per espressa previsione dell’art. 52, comma 2, del D.P.R. n. 180/1950 e successive modificazioni, che stabilisce che “alla cessione del trattamento di fine rapporto… non si applica il limite del quinto”.

La Suprema Corte parte nel proprio ragionamento dai seguenti quesiti: la cessione del credito avente ad oggetto il trattamento di fine rapporto è ammissibile? E, in caso di risposta affermativa, tale cessione è sottoposta al limite del quinto dell’importo complessivo?

La Corte di Cassazione richiama innanzitutto la propria precedente sentenza n. 4930/2003, in cui stabilisce che il credito per trattamento di fine rapporto è cedibile ai sensi dell’art. 1260, comma 1, c.c., non avendo carattere strettamente personale e non essendo il trasferimento vietato dalla legge.

Secondo la Corte, infatti, il credito del lavoratore per trattamento di fine rapporto non ha natura strettamente personale, in quanto non è “volto al diretto soddisfacimento di un interesse fisico o morale della persona” e non assume rilevanza “la persona del creditore ai fini del contenuto della prestazione”. Il trattamento di fine rapporto, determinato in base all’art. 2120 c.c., è infatti collegato, sotto il profilo causale, al rapporto di lavoro: ai fini della determinazione della prestazione, non ha dunque alcuna incidenza la persona del creditore.

I divieti dell’art. 1260, comma 1, c.c. non possono inoltre trovare applicazione oltre i casi espressamente considerati dalla norma, in base al principio di cui all’art. 14 delle disposizioni generali.

Ciò chiarito, la Suprema Corte risponde al secondo quesito, richiamando il principio espresso nella propria sentenza n. 685/2012 e confermato dalle Sezioni Unite n. 1545/2017, secondo cui: “in tema di espropriazione forzata presso terzi, le modifiche apportate dalla L. n. 311 del 2004 e L. n. 80 del 2005 (di conversione del D.L. n. 35 del 2005) al D.P.R. n. 180 del 1950 (approvazione del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni) hanno comportato la totale estensione al settore del lavoro privato delle disposizioni originariamente dettate per il lavoro pubblico.

La Corte di Cassazione passa a questo punto ad esaminare la disciplina del D.P.R. n. 180/1950, nella versione pro tempore vigente, applicabile anche al caso di specie, ovvero ad un lavoratore dipendente di azienda privata.

In particolare, l’art. 52 del D.P.R. n. 180/1950 stabilisce che:  

- la cessione di quote di stipendio o di salario, sia nel caso di lavoro a tempo indeterminato che a tempo determinato, non può essere superiore al quinto dell’importo;

- il limite del quinto non opera per la cessione del trattamento di fine rapporto.

Tale impostazione trova peraltro conferma nella lettura degli artt. 55 e 43 del D.P.R. n. 180/1950, in base ai quali alle indennità spettanti agli impiegati e ai salariati non dipendenti dallo Stato da erogare una volta tanto alla cessazione dal servizio, tra cui è ricompreso per giurisprudenza anche il trattamento di fine rapporto, si estendono gli effetti della cessione per tutto il residuo dovuto e senza il limite del quinto.

Dato quanto sopra, la Suprema Corte accoglie il ricorso, enunciando il seguente principio di diritto: “ai sensi del D.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, art. 52, comma 2, come modificato dal D.L. 14 marzo 2005 n. 35, art. 13 bis convertito con modificazioni dalla L. 14 maggio 2005, n. 80, alla cessione del trattamento di fine rapporto dei lavoratori pubblici e privati non si applica il limite del quinto”.